Pisa: Flaviano Bianchini

Ci sono luoghi del mondo che possono essere visitati, attraversati, solo se sei “clandestino”. Luoghi che non ammettono altro transito se non il silenzio, il calcolo brevissimo dei passi che si susseguono. Solo i passi, e niente altro. Ed è, forse, proprio il “camminare” il grande protagonista dell’ultima fatica di Flaviano Bianchini, “In Tibet. Un viaggio clandestino”, che sarà presentata presso la libreria “La Mongolfiera” di Pisa.

I piedi sono un antidoto allo stereotipo, un modo efficace per sfuggire alla logica ossessiva del tour-operator, ma anche un espediente per rendere fluida la propria presenza in un contesto, come quello del Tibet contemporaneo, che pochissimo spazio lascia alla libertà di movimento. Ne abbiamo parlato con l’autore del volume, alla luce anche delle molti questioni che vengono sollevate durante la narrazione del suo “iter mirabilis” in Tibet.

“In Tibet” è prima di tutto un libro di viaggio. Una lunga marcia a piedi, nel tentativo di accordare la propria misura di occidentale a quella del popolo tibetano e dei suoi rituali quotidiani, della sua consuetudine.

Sono 1600 Km a piedi, dal Monte Kailash (la montagna sacra dei tibetani) a Lhasa, passando dal monte Everest e dai luoghi dove è nato e cresciuto il mio amico Palden Gyatso, monaco tibetano che ha passato 33 anni nelle carceri politiche cinesi e che mi ha spinto a compiere questo viaggio (“Io non posso più tornare in Tibet, vai tu e raccontami come è” mi disse un giorno convincendomi a fare questo viaggio). Ma un vero viaggio è quello che ti consente di “entrare dentro” al paese in cui viaggi. E per “entrare dentro” al Tibet l’unico modo per farlo è camminare. Oggi non si cammina più. Anche quando si parla di viaggio si pensa al viaggio in aereo o in auto. Ma il vero viaggio è solo quello a piedi. Se vuoi “entrare dentro” il Tibet ti devi muovere a piedi.

Carlo Levi, e così molti altri intellettuali italiani che hanno viaggiato in Tibet dopo la nascita della Repubblica Popolare cinese, guardavano positivamente all’opera di “ammodernamento” condotta dal regime maoista in quella regione. La dimensione del sopruso politico e del genocidio erano già evidenti allora, eppure nella valutazione generale si privilegiavano altri elementi. Cosa è cambiato oggi? Come spieghi l’evidente spirito di solidarietà che una parte importante dell’Occidente esprime nei confronti del Tibet?

Secondo questo punto di vista gli inglesi avrebbero fatto bene a sterminare i pellerossa del Nord America. 200 anni a vivevano nei tepee, oggi hanno i grattacieli… Io credo che nessun “ammodernamento” possa giustificare un genocidio politico e culturale come quello tibetano. Inoltre dobbiamo considerare che l’ammodernamento del Tibet non ha portato un efettivo miglioramento delle condizioni di vita dei tibetani. Oggi il Tibet resta la regione più povera, meno istruita (il 70% di analfabetismo), con la speranza di vita più bassa e più malnutrita di tutta la Cina. Questo in cambio di tre strade e qualche centro commerciale. Diciamo che io ho un altro concetto di modernità e progresso, e come me probabilmente una grande parte dell’opinione pubblica che, per questo motivo, simpatizza con i tibetani e con il loro movimento.

La clandestinità, dimensione “connotativa” nel tuo testo, può essere intesa come una condizione privilegiata per affrontare una conoscenza più compiuta del mondo?

Sicuramente non avrei visto il Tibet che ho visto se non fossi stato un clandestino. Il Tibet oggi lo puoi visitare solo con un tour operator cinese che ti carica sulle jeep di ultima generazione e ti scorrazza in giro per farti vedere solo quello che puoi e che devi vedere. Ma per conoscere bene un posto (qualunque esso sia) devi vedere e conoscere quello che non si può e non si deve vedere. Spesso ho pensato che molti immigrati clandestini che arrivano da noi conoscono l’Italia meglio di molti italiani che la “visitano” da una poltrona davanti a una TV.

Da conoscitore di quelle terre e di quella cultura, come motivi la straordinaria opera di resistenza sostenuta dal popolo tibetano? Il Tibet, per quanto sia accaduto fino a oggi, è ancora un paese libero.

La maggior parte del popolo tibetano è nomade e i nomadi sono ormai migliaia di anni che mantengono il loro nomadismo in un mondo fatto di città e modernità. Questa capacità e perseveranza maturata nei millenni è quella che consente al popolo tibetano di mantenere la loro libertà. Nelle ultime manifestazioni dell’anno scorso partecipavano giovani ragazzi che erano figli di gente nata già sotto l’occupazione cinese. Siamo ormai alla terza generazione di persone nate “in seno al Partito”, eppure le proteste non accennano a diminuire.

Definiresti, in concreto, la società tibetana come una “società arcaica”?

Io non la definirei una “società arcaica”. Piuttosto la definirei una società fortemente ancorata alle proprie radici, ma non arcaica.

In ultimo, quali responsabilità ha il governo cinese rispetto alle attuali condizioni del Tibet e del popolo tibetano? Un processo di corruzione identitaria è in atto, oppure ancora una resistenza a oltranza è possibile?

Credo che una resistenza a oltranza sia possibile e i tibetani la stanno attuando. Il governo di Pechino sta tentando in tutti i modi di “cinesizzare” il Tibet. Ormai i cinesi Han in Tibet sono più degli stessi tibetani, ma la cultura tibetana non muore. Il popolo tibetano mantiene la sua identità nonostante tutti i soprusi e le corruzioni morali che subiscono ogni giorno. E questa è la forma di resistenza a oltranza più efficace che possa esistere. Fintanto che la cultura e l’identità tibetana sopravviveranno i cinesi non avranno veramente conquistato il Tibet. E io credo che che la cultura e l’identità tibetana sopravviveranno ancora a lungo. Molto a lungo.

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Pisa: Flaviano Bianchiniultima modifica: 2009-09-30T11:34:17+02:00da minobezzi1
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