……..e ri-Livorno: La bebele della Livorno seicentesca

Tra la metà del Seicento e dell’Ottocento Livorno era una città cosmopolita, aperta e effervescente, miscuglio di razze e di etnie. Reggeva il passo con Venezia, Salonicco e Amsterdam. Le leggi livornine del 5 dicembre 1548 del Granduca Leopoldo di Toscana invitavano a favorirne lo sviluppo economico e demografico e alla promozione morale e civile della società non solo agli abitanti degli stati vicini alla Toscana, ma anche “alle persone di nazionalità straniera”.

Era stata resa  appetibile perché non vi si pagavano tributi e debiti per dieci anni, era concessa immunità, libertà di culto, di beni e di commercio. Estensibili anche agli ebrei portoghesi, che erano stati colpiti dalle persecuzioni degli spagnoli e che trovarono in quegli anni un sicuro “domicilio” in città. Benefici e garanzie che furono in seguito estese ai mercanti greci, turchi, mori, ebrei, aggiumi, ebrei e persiani”. Città “in progress” quindi vivace e caciarona. Tanto lo era che il nome Liorna per gli spagnoli significava gazzarra, baraonda, confusione. Vi si parlavano 22 lingue diverse, praticavano oltre sette religioni.Nel 1745 la comunità di Livorno contava circa 33mila abitanti: 22mila cristiani e 11mila non cristiani. Charles De Brosses, scrittore – viaggiatore francese in quegli anni scriveva: “Le strade sembrano un vero e proprio mercato di maschere e la lingua quella di Babele”.

Concetto espresso un secolo dopo anche dall’inglese W.R. Wilson, colpito “dalla Babele delle lingue parlate e dai vestiti variopinti, che davano alla città un’aria vagamente orientale”. E non aveva torto, anche perché nell’aria si poteva annusare l’acuto odore delle spezie, che in gran quantità giungevano dall’Oriente. Ci si imbatteva in una folla indaffarata e vociante di persone vestite d’ogni foggia e colore. Vi s’incontravano mercanti e commercianti francesi, inglesi, ebrei portoghesi e spagnoli, tedeschi, olandesi e greci, armeni , turchi siriani, arabi. Facevano affari in città anche grandi banchieri ebrei levantini, di origine italiana, di famiglie portoghesi. Nell’allora piazza Grande passeggiavano persiani, arabi, libanesi, nordafricani, che sbrigavano le pratiche alla Dogana di Pisa e nella stessa via Grande si ritrovavano i ricchi mercanti olandesi, tedeschi e inglesi, come narra Martini nel suo “Viaggio in Toscana” di quegli anni. Nel vicino quartiere della Venezia Nuova c’erano i grandi palazzi consolari delle varie Nazioni e dei mercanti, che avevano magazzini con ingresso sui canali, dove ricevevano le merci. Era un via vai di negozianti, navicellai e facchini, di lavoranti, e poi pescatori e fornitori, calafati, carrettieri e maestri d’ascia, artigiani del ferro e del legno. Il porto era ormai centro d’interscambio tra il Mediterraneo e il nord Europa.

I livornesi della Venezia parlavano un misto di dialetto locale e di lingue originali. “Les italiens, sottolineava una relazione del consolato francese, parlano il provenzale come fossero de Martigues”, un paesino alla bocche del Rodano, definito, per i suoi canali, la Venezia della Provenza. In un solo giorno si potevano udire sette o otto lingue diverse. E come non ricordare allora i gran tour dei dignitari musulmani, che partivano da Algeri per il pellegrinaggio alla Mecca, scendevano nei porti del Mediteraneo visitavano Parigi e altre città del nord Europa e, dopo aver visitato Livorno, s’imbarcavano per concludere il viaggio in nave sulla rotta dell’Arabia. Le religioni e i riti che si praticavano a Livorno dimostrano l’intreccio e la varietà dei linguaggi. I cattolici si esprimevano in latino, italiano, dialetto livornese (cioè parlato nel quartiere Venezia), in dialetti non toscani, in gergo, in lingua corsa, in francese e portoghese.

Forte la presenza dei greci uniti (parlavano il greco) e dei melchiti, della chiesa Armena e dei maroniti, dei greci e russi ortodossi. Gli ebrei parlavano la lingua madre, il portoghese, il giudaico-portoghese, il giudaico-spagnolo, il ladino, il bagitto (vernacolo degli ebrei livornesi), la lingua franca. Le altre religioni praticate: quelle degli anglicani (con lingua inglese), dei protestanti (lingua tedesca e olandese) e dei musulmani(lingua araba e turca). Le varietà linguistiche erano completate dall’arabo e dal siriano(arabo-maronita e siriano maronita). Erano un miscuglio di dialetti e linguaggi, ancora oggetto di studi e ricerche, altro vero “cacciucco” alla livornese, che, insieme alla poesia dialettale del quartiere della Venezia, e alla letteratura popolare di quei secoli sono riproposti in tutta la loro fragranza in due libri: “Livorno, la Venezia e la letteratura dialettale”, e “Testi 1790-1832: dalle Bravure dei Veneziani alla Bretulia Liberata in dialetto ebraico”.

L’autore è Fabrizio Franceschini, docente di storia della lingua italiana all’Università di Pisa, che ha ricordato come Livorno nasce per essere interculturale e interetnica e il dialetto diventi modernità. I due volumi, Felici Editore, Pisa, sono stati presentati a palazzo Granducale da Giorgio Kutufà, presidente della Provincia, Simone Giusti, vescovo di Livorno, Michele Luzzati, presidente del Centro studi ebraici dell’Università di Pisa, Silvia Calamai dell’Università di Siena, Massimo Sanacore, direttore dell’Archivio di Stato di Livorno, Gabriele Bedarida della Comunità Ebraica di Livorno, Monica Ria, presidente della circoscrizione 2 del Comune di Livorno, Monica Mannucci, assessore Politiche Comunitarie della Provincia. Pardo Fornaciari, studioso e ricercatore, ha eseguito alcuni canti della tradizione livornese e giudeo-spagnola.

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……..e ri-Livorno: La bebele della Livorno seicentescaultima modifica: 2009-10-06T12:32:00+02:00da minobezzi1
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