Prato: Una damza “di acuto ingegno e graziosa bontà”

La sera del 30 novembre 1609 Galileo Galilei guardava verso il cielo con uno strano tubo munito di lenti, che lui stesso aveva costruito, perfezionando un’invenzione di un occhialaio olandese. Lo aveva chiamato canna, poi cannone e occhiali e finalmente – per comodità di pronuncia – cannocchiale [Alessio – Battisti Dizionario etimologico, 1950]. Inaspettatamente gli apparvero – primo uomo a vederli! -, i quattro satelliti del pianeta Giove.
 
Trascorsi giusti giusti 400 anni, il 2009 è stato proclamato Anno Galileiano con tante iniziative in tutta Italia. Anch’io voglio ricordare, sia pure in “zona Cesarini”, questo anniversario mettendoci qualcosa di pratese, visto che nessuno in città, almeno mi pare, se n’è ricordato.
 
Il Galilei ebbe infatti molte amicizie e anche incarichi professionali a Prato. Il Bisenzio, torrente un po’ bizzarro, rompeva continuamente gli argini. Quasi tutti gli esperti interpellati consigliavano di raddrizzare l’alveo. Fu consultato anche Galileo. È conservata la sua relazione che, riferendo complessi calcoli ed i risultati di osservazioni sul campo, dimostrava l’inutilità di intervenire modificando il corso e concludeva: il letto del Bisenzio non deve rimuoversi, ma soltanto nettarlo, allargarlo ed alzare gli argini ove avesse traboccato.
 
Delle sue amicizie pratesi ci parla Cesare Guasti [Opere, vol. I Le relazioni di Galileo con alcuni pratesi, Prato, 1894] . Fra queste una dama di acuto ingegno e di graziosa bontà le cui conversazioni lo incantarono così tanto che, in una lettera da Arcetri del 6 aprile 1641, le scrisse: Non potrei a bastanza esprimerli il gusto che haverei di potere, con otio non interrotto, godere de’ suoi ragionamenti tanto sollevati da i comuni femminili, anzi tali, che poco più significanti et accorti potriano aspettarsi da i più periti homini del Mondo. Voi che coraggiosamente, e con men sicura compagnia, havete scorso le centinaia e centinaia di miglia, per paesi inospiti e selvaggi.
 
Era questa dama Alessandra Bocchineri donna coraggiosa che aveva affrontato superandoli tutti gli ostacoli – e non furono pochi – che la vita le aveva riservato. Più volte vedova, viaggiò molto per seguire i suoi mariti : da Firenze a Mantova, da Mantova a Vienna, da Vienna a Neuburg e da Neuburg per tornare in Patria, ora da sé sola, or con i mariti, in tempi di guerre e di stagioni inclementi [le citazioni in corsivo sono tratte da Ruggero Nuti Alessandra Bocchineri, Archivio Storico Pratese, Anni XIV, 1936 e da una cronaca manoscritta conservata nell’Archivio Comunale di Prato]. L’Alessandra mandava al Galilei le sue impressioni di viaggio. In una lettera lo informa sulla Germania con tanta cognizione d’uomini e di cose che lui ne stupì.
 
La famiglia Gherardacci, che poi assunse il nome Bocchineri, era una delle famiglie più antiche di Prato. Possedeva casa e torre in Porta Tiezi (oggi via Garibaldi), accanto all’oratorio di San Lodovico, che fu di suo patronato, ed ancor oggi sussiste sotto l’invocazione della Madonna del Buonconsiglio. Alessandra veniva da questa famiglia, dama arguta, accorta, di magnanimo cuore e di spirito nobile che nella gran povertà che ebbe a patire seppe sostenersi da Nobile.
 
I Bocchineri si erano ridotti in gran miseria. Il colpo finale gliela aveva dato Carlo, padre dell’Alessandra, prendendo in moglie in età troppo tenera la signora Polissena Gatteschi, nobile pistorese, dalla quale non ebbe un soldo di dote, ma un solo poderuccio di là da Pistoia, che Carlo vendé a bricioli, e a stento. Incurante della miseria e dei debiti questa signora Polissena, piena di fantasia, vestiva superbamente, benché ogni anno facesse un figliolo, e tanto il marito quanto lei si davano continuamente bel tempo in veglie, in giochi, in pasti e in festini.
 
Carlo in breve tempo divenne così povero che Prato non haveva il più miserabile di robba, e di credito, onde furono tutti necessitati vivere molti anni senza serva, e senza bever vino, e far la minestra per i Giubilei [che come noto vengono proclamati ogni cinquant’anni]. L’Alessandra era la figlia maggiore e sostenne la casa acciò non cadesse in vergognose bassezze, con il guadagno di ben ricamare, ché il ricamo andava assai in quei tempi, e poté così dare il pane a tutta la famiglia.
 
Nel 1617 le disastrate condizioni economiche della famiglia ebbero un sia pur lieve sollievo : Carlo, dottore nelle due leggi, fu estratto per andare Podestà a Bibbiena dove Alessandra, ventitreenne di bell’aspetto, trovò marito. Era questi Lorenzo Nati, vedovo con due figlioli. Papà Carlo promise una dote di scudi 1100 e un corredo di cento scudi. La stessa Alessandra ci racconta che imbroglio fece suo padre su quella dote. Il futuro sposo, su consiglio del futuro suocero, nominò un procuratore che andasse a Firenze ed a Prato ad incassare i soldi della dote. In realtà si trattava di riscuotere dei sussidi stanziati per aver Carlo pianto miseria e chiesto aiuto: 200 scudi dai “Buoni Huomini di San Martino” (una confraternita che aiutava i nobili decaduti e bisognosi) e 135 dalla Comunità e da altre opere pie di Prato.
 
Tornato a Bibbiena, il Fagiuoli consegnò le somme al Podestà e questi convinse il genero a contentarsi di soli 200 scudi allegando che aveva speso de’ denari della Podesteria et che se non li avesse rimessi in capo a quindici dì le cose sarebbero passate male. Messer Lorenzo si contentò e la sposa ebbe come corredo le coserelle che aveva da fanciulla e un vezzo di perline come son quelle che qui a Prato si fa le smaniglie [nel Vocabolario del Fanfani (1865): “Smaniglia: Girello in ornamento del braccio, il quale ovunque si pone circonda e stringe”].
 
Dopo Bibbiena Carlo andò Podestà a Castel S. Niccolò, e il genero non mancò di provvedere lui e la famiglia dell’alloggio, e continuò a tenersi in casa sua tre o quattro cognati, mandando agli altri panno, accia [filato di canapa o stoppa], prosciutti, cacio, frutta e farina. Alessandra partorì una bambina, Angelica, ma di lì a tre mesi il marito morì con sospetto di malia fattagli da una sua donna, che si teneva avanti che pigliasse moglie.
 
Il padre, cui non mancava la fantasia per gli imbrogli, fece dichiarare ad Alessandra di essere di nuovo incinta (in una lettera scriverà tanto ero gravida io che un ceppo) e il cancelliere dei pupilli le assegnò 5 scudi il mese. Torna a Prato, nella casa paterna, dove vi erano otto figlioli, ed io non ci havevo altro refrigerio che di lavorare sino a mezza notte per guadagnare il vitto a detta famiglia, et di vendere quando una cosa et quando un’altra di quelle havevo havuto dal Nati, come sarebbe stato collanine da mano, anella, orecchini, et quello che non vendei per affetto, l’impegnai.
 
Nel 1621 la vita sembra tornare a sorridere. Alessandra viene promessa sposa a Giovan Francesco Rasi, gentiluomo aretino, eccellente musico, benvoluto dal duca di Mantova che lo chiama a corte, nominando anche suo padre Ascanio senatore di Casale. Ma il senatore morì poco dopo e la famiglia Rasi volle tornare in Toscana. Per disgrazia era della comitiva una bella cameriera, moglie d’un fattore, che non tardò ad innamorarsi del cavaliere Giovanfrancesco, come il cavaliere non tardò ad innamorarsi della cameriera. La vigilanza della madre, Gemma Biffoli, durante il viaggio da Mantova alla villa di Pomaio ad Arezzo e poi in villa fu tale che i due amanti diventarono sempre più furiosi fino a congiurarne la fine.
 
Un servo fu incaricato di levar di mezzo il fattore e la povera madre fu strangolata con un laccio di seta e trafitta per la gola con un pugnale, sicché fu creduta morta. I due amanti fuggirono verso la contea di Montauto, ma per la strada accaddero i più strani eventi : la cameriera cadde dal cavallo e si ruppe braccia e gambe, i cavalli pareva che non sapessero o potessero correre e le valigie che i fuggitivi avevan ripiene di robe sparirono tutte senza che nessuno se n’accorgesse. Il Rasi scappò a rifugiarsi a Mantova, sotto la protezione del suo duca, la cameriera fu curata e ben guardata e la Gemma, che fortunatamente non era morta, fece porre taglie e bandi per far vendetta.
 
Intorno a lei si strinsero le famiglie Bocchineri e Biffoli. Ma il Gonzaga, padrone del Rasi, e il Granduca di Toscana che aveva a portata di mano Bocchineri e Biffoli si accordarono per far tornare la pace fra queste famiglie. Il matrimonio fra il focoso cavaliere e la povera Alessandra fu il sigillo sulla ritrovata armonia. Gli sposi andarono a passare qualche giorno alla Villa del Barone, presso Montemurlo, che era in quel tempo proprietà dei marchesi Rossi di Mantova, ma il Duca Gonzaga sollecitava il ritorno del Rasi alla corte, per cui dovettero partire di fretta, senza poter portare la bambina, come avrebbe voluto l’Alessandra. Trovarono la città in grandi festeggiamenti per le prossime nozze della sorella del Duca che andava sposa all’Imperatore.
 
Una sera, in un festino di canti e balli, cantò anche il Rasi. Tornato a casa tutto allegro non passò mezz’ora che gl’entrò nel sangue una febbre così violenta che in sette giorni, il 30 novembre 1621, lo privò di vita. Prima di morire, con haver goduto così poco tempo i diletti amorosi, et haver servito per 28 anni il ser.mo Padrone il cavaliere fece con la sua sposa espressioni così amorose che haverebbero intenerito i marmi. Né mancò di raccomandarla al duca che si degnassero benignamente di havere in protezione la sua cara sposa, ch’ei lasciava sola, giovane e senza robba. L’appello non restò inascoltato. Alessandra fu gratificata di molti doni preziosi, che mandò al fratello a Prato per far fronte ai bisogni della famiglia, e fu scelta tra le dame che dovevano andare a Vienna per servire l’Imperatrice.
 
Arrivata a Vienna dopo un non breve e facile viaggio ebbe la signora Alessandra gravi malattie si per l’incomodo del viaggio, che per la rigidezza dell’aria e per i disagi della Corte, che più d’una volta stiede in punto di perdere la vita. Tutto a Corte le appariva strano. Scrisse a suo fratello : di quante Dame condusse seco di Mantova S. M. Cesarea, che furono più di cento, tutte se ne andorono, chi per un conto, chi per un altro, ovvero si maritarono.
 
Alessandra non fu da meno e convolò a nozze con il Cavaliere Giovan Francesco Buonamici, anche lui pratese, che era in quella Corte come segretario del Nunzio Apostolico Principe della Roccella e anche per comandare le militie che il Papa haveva mandato in aiuto all’Imperatore, mediante la guerra che travagliava la Germania e l’Ungheria, mossa dal Re di Svezzia, unito con altre potenze eretiche e christiane.
 
Nel 1624 il Buonamici accompagnò l’arciduca Carlo alla Corte di Madrid con grande scontento della moglie che dovette rimanere sola a Vienna. All’improvviso, a Madrid, nel meglio dei suoi negoziati, l’arciduca morì. Il Buonamici pensò che la fortuna gli avesse voltato le spalle e invece trovò subito un altro impiego presso il duca Wolfango Guglielmo di Neuburg, che era andato in Spagna per implorare aiuto e soccorso, essendo i suoi Stati invasi dai Brandemburghesi.
 
L’Alessandra accolse con gioia la notizia del nuovo impiego del marito e lo raggiunse a Neuburg per godere quel contento, che gl’era stato impedito dalla lontananza. Ma il bene nella vita di quella donna fu sempre di breve durata. Diede incarico ad un servitore, che andava per altre faccende in Toscana, di riportare a Neuburg la figliola Angelica, affidata a Prato ai suoi parenti, che però si rifiutarono. Ne sortì una gran inimicizia fra i Bocchineri ed i Buonamici.
 
Si arrivò addirittura ad un fatto scandaloso: Maria Caterina Buonamici, sorella di Giovan Francesco, monaca in Santa Caterina a Prato, mandò una mattina a chiamare l’Angelica amicabilmente; et arrivata su la porta del Convento, la prese per un braccio, e la tirò in monastero, né volle rimandarla a casa. Ma la nonna Polissena si precipitò in convento e, senza licenza alcuna [si pensi alla gravità di un fatto simile in un convento di clausura] entrò dentro, e levò la ragazza, senza curare li schiamazzi delle Monache; onde suor Maria Caterina, che la teneva, fu talmente spaventata da questo ardire, che diede in una lunga malattia, della quale poi se ne morì. Giunsero queste terribili notizie e Alessandra, mentre si trovava con la duchessa alla predica, cadde svenuta per il dolore, suscitando un gran bisbiglio fra le persone che erano nella chiesa.
 
Nel frattempo il cavaliere suo marito era stato mandato con alti incarichi prima a Vienna per vari mesi e poi, per un periodo ancora più lungo, a Madrid. Alessandra sopportava di buon grado la nuova assenza del marito perché vedeva il cavaliere destinato ad un impiego che se l’avesse eseguito felicemente l’havrebbe portato all’auge della Gloria. Comunque il 25 giugno 1630 gli sposi poterono riabbracciarsi a Firenze. L’Alessandra era partita da Neuburg il 23 aprile alla volta della corte della granduchessa di Toscana e Giovan Francesco da Madrid il 25 maggio per raggiungerla.
 
La vita aveva però in serbo altre dure prove per la povera Alessandra. Il padre le aveva promesso un testamento a suo favore, ma morì a Pietrasanta prima di averlo redatto. Le liti con i parenti era sempre più feroci. La figlia Angelica fu messa in serbanza nel Monastero di Santa Trinita a Prato, ma lei protestava che non aveva punta voglia di esser monaca e anzi chiedeva dote per trovar marito. La mamma se la riprese in casa, contento il cavaliere, e la mantenne con la borsa di lui, ma la bontà fu mal ripagata, che la figlia neppure una volta racconciò al padre un paio di calze, et non gli ha mai parlato una parola! Il Buonamici fu eletto governatore degli Ospedali a Prato ma invece di godere una placida quiete si scatenarono contro di lui acerbissime liti e inimicizie.
 
Unica grande consolazione nella vita così travagliata e complicata dell’Alessandra – cui la morte pose termine nel 1649 – fu l’amicizia, la corrispondenza e, quando fu in Toscana, la frequentazione col Galilei. Relazioni che erano diventate ancora più strette quando sua sorella Sestilia sposò Vincenzo, figliuolo di Galileo: le nozze furono celebrate a Prato, nell’Oratorio di San Lodovico.
Prato: Una damza “di acuto ingegno e graziosa bontà”ultima modifica: 2009-12-28T10:04:00+01:00da minobezzi1
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