Lucca: Daniela Marcheschi

Daniela Marcheschi

Alberto Marchi per loschermo

Daniela Marcheschi, italianista di fama internazionale, poetessa, traduttrice, è uno dei maggiori critici letterari italiani. Curatrice dei Meridiani mondadori dedicati a Carlo Collodi e a Giuseppe Pontiggia, ha scritto “Chiara Matraini. Poetessa lucchese e la letteratura delle donne nei nuovi fermenti letterari del ‘500” (Maria Pacini Fazzi),  “Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività” (Avagliano) e molte altre opere. E’ fra i non moltissimi scrittori e studiosi di letteratura del nostro paese che costantemente ha svolto, e rivolto, la propria attività anche all’estero, ottenendo prestigiosi riconoscimenti internazionali come il Rockfeller Award 1996 per la letteratura e il Tolkingspris, conferitole dall’Accademia di Svezia nel 2006.

Ma come tutte le vere grandi personalità della cultura, non solo letteraria, questa vocazione che potremmo definire come connotata alla internazionalità, si coniuga alla perfezione con un forte radicamento nella tradizione culturale della propria città, Lucca, in cui vive. I suoi sconfinati interessi culturali non le precludono inoltre, a differenza di molti suoi colleghi letterati, di considerare il giornalismo come una parte importante della cultura di un paese.

Con lei quindi parliamo, nell’ambito del nostro ciclo di interviste sui grandi giornalisti lucchesi, soprattutto di Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, che a loro volta furono anche grandi intellettuali a tutto tondo, e senza trascurare gli altri grandi giornalisti, artisti e scrittori lucchesi che rendono il Novecento lucchese un periodo così fecondo per l’intera storia culturale italiana.

Cosa ci hanno lasciato in eredità personalità come Arrigo Benedetti o Mario Pannunzio?

Sicuramente la libertà, un principio di libertà e di etica, la responsabilità dell’etica e delle scelte. Queste persone erano intanto persone libere, che facevano una battaglia attraverso il giornalismo, nel giornalismo, con il giornalismo; una battaglia in cui credevano, senza diciamo asservirsi a compromessi radicali. E’ chiaro che i compromessi si fanno, ma non i compromessi che mettano in gioco la libertà, la dignità, l’indipendenza del giornalismo. In poche parole queste erano persone che credevano nel giornalismo come strumento di vita civile e di libertà. Erano veramente figli del grande pensiero ottocentesco e diciamo dei padri del giornalismo italiano, che propugnavano come esempio di modernizzazione del paese e di esercizio della libertà. Quindi c’era questo afflato, questa onda lunga che veniva dal Risorgimento, ma anche da tempi più vicini. Erano persone che avevano dei grandi ideali e tutto sommato questi grandi ideali non potevano che venire da un’educazione vissuta e avuta in una città dove la riforma protestante ha lasciato delle tracce anche oggi forti, anche nei modi di dire: “in coscienza”, “a coscienza” sono espressioni tipiche del protestantesimo, non pensabili in un’altra dimensione.

Sono stati quindi dei grandi giornalisti ed è facile capire perché si celebrino a volte in maniera anche retorica, ma poi, in qualche modo, se ne tenga lontano l’esempio vivo; perchè l’esempio vivo è scomodo in una società dove il culto della libertà, dell’indipendenza, della machiavelliana virtù non c’è. L’intelligenza, il rigore sono troppo scomodi; sono esponenti di una borghesia italiana che nei grandi numeri non c’è più, perché questa borghesia nuova è una borghesia che tende appunto ai grandi compromessi, ha feticizzato il denaro, non cura la propria indipendenza e la propria libertà e quindi è pronta anche ad asservirsi a tutte le sirene”.

Quindi sono stati dei grandi giornalisti cresciuti e formatisi in un contesto di riferimenti ed esperienza culturali ben preciso.

“Questi personaggi non venivano da ambienti come quelli che ho poc’anzi descritto: avevano un culto dell’onestà, della rettitudinie e della probità molto forte. E questo è un culto che c’è fortissimo nel gruppo del caffé di Simo: Romeo Giovannini, Beppe Ardinghi, il culto della bellezza, il culto dell’arte come culto che si difende dalla chiacchera, dal gossip, dagli inquinamenti della vanità, dell’apparire. Questa convinzione che il lavoro letterario è qualcosa di radicale, assoluto e da coltivare come si coltiva una disciplina morale.Era proprio, una disciplina morale, la letteratura come disciplina dello spirito, che richiede una disciplina come quella del monaco, che la pratica, basta pensare a quello che ha fatto Giuseppe Ardinghi, ma anche Romeo Giovannini, le cose belle che ha tradotto, che ha scritto e che sono lì, ancora segrete”.

Qual è la matrice storica e culturale di questo gruppo lucchese? Come nasce, grazie ad Ardinghi?

Ardinghi, Giovannini, Benedetti e gli altri si sono probabilmente incontrati per una serie di consonanze spirituali, in maniera spontanea. Amavano la cultura, la pittura. Amavano leggere, e soprattutto la letteratura e la pittura militanti. Erano giovani e come diceva giustamente Beppe Ardinghi, moderni, cercavano il moderno. Amavano e discutevano di letteratura in libertà, ma condividevano anche esperienze semplici, come le passeggiate in bicicletta, oltre che le letture e le discussioni artistiche”.

Erano tutti molto precoci. Chi faceva parte di questo gruppo storico?

“Giuseppe Ardinghi, che era del 1907, va all’Accademia molto presto ed è il primo che porta anche la ventata di novità della pittura. Il gruppo storico era costituito da Gaetano Scapecchi, Beppe Ardinghi, Domenico Lazzareschi, Guglielmo Petroni, Leone Lorenzetti, Cesare Olivieri, Valentino Landi, Sandro Volta, Giulio (Arrigo)Benedetti. Si va dal 1925-26, quando avevano dai 15 ai 18 anni, fino al 1935-36. Ma il gruppo più ristretto di amici che hanno vissuto insieme era formato da Giulio (Arrigo) Benedetti, Guglielmo Petroni, Gaetano Scapecchi, Giuseppe Ardinghi.  Facevano insieme gite in bicicletta, mangiavano pane e salame, prosciutto, bevevano vino all’osteria, e poi libri e arte, secondo quanto raccontava Giuseppe Ardinghi.

Mario Pannunzio invece veniva in vacanza perché si era trasferito con la famiglia a Roma.

Ma erano entusiasti dell’arte del Novecento, anche se pensavano al futurismo come qualcosa di già vecchio. E nel gruppo c’era naturalmente anche Mari Di Vecchio. Il loro riferimento culturale era Mino Maccari. Poi quando Beppe Ardinghi andò a Firenze all’Accademia portò la novità di Solaria, delle iniziative fiorentine e tutte le sue amicizie, le conoscenze. Beppe a Firenze era un allievo di Felice Carena, e ricordo che aveva una bellissima foto della sua classe con Felice Carena. C’era un reciproco insegnamento, era costante un’educazione del gusto, fatta sugli oggetti comuni. Gli antichi – raccontava Ardinghi – erano rivisti attraverso i moderni. In quelle tranquille riunioni al caffè non avveniva ciò che si chiama di solito discussione, ma piuttosto un aiutarsi a capire di più qualcosa su cui già si era d’accordo.

Chi veniva da Roma o da Firenze portava le le parole degli artisti maggiori e poi libri, testi, riproduzioni di opere. Si cominciava a conoscere la pittura moderna francese. Quasi senza pensarci si cercava una chiave che da sola potesse aprire le porte di ogni aspetto dell’arte. Fosse musica o lettere o arti figurative. Un ruolo importante l’aveva il Selvaggio, che rappresentava la parte del Novecento più realistica. Diceva Ardinghi: “Di misura toscana, Strapaese contro Stracittà, meglio accettabile per giovani di una onesta provincia”. Sono pagine queste di Ardinghi veramente bellissime”.

E poi negli anni trenta il gruppo si separa per quali motivi?

“Perché Beppe Ardinghi otterrà il lavoro, otterrà l’insegnamento. Guglielmo Petroni aveva vinto un premio e va a Roma, Romeo era entrato in seminario e fa gli studi classici, ma poi va dietro a Benedetti che a sua volta più avanti va a Roma dietro a Longanesi. Benedetti pure fa il liceo, studia a Pisa e si sposa nel 1938. Da giovanissimo invece abitava a Fagnano e veniva chiamato il Proust di Fagnano, perché evidentemente il suo amore per Proust veniva disprezzato da certo establishment di intellettuali lucchesi che non lo amavano e che erano invece molto crociani, legati ad un certo crocianesimo.

Poi collabora con Mino Maccari, che aveva certo le sue simpatie politiche, però quella che ad un certo punto anche Maccari voleva difendere era proprio l’autonomia dell’arte. Maccari dopo il primo periodo tremendo, squadristico del fascismo dice: ora basta, bisogna veramente dedicarsi all’arte, è il momento di costruire. Così sul Selvaggio si ritrova prima con Giovannini, con Tobino e cominciano le pubblicazioni dei lucchesi.

Arriva poi la collaborazione a Caratteri nel 1935, rivista fondata da Punnunzio e Delfini e si ritrova anche con Pannunzio passeggiando al Forte dei Marmi. Si riconoscono e si salutano: “Sei te che scrivi su quella rivista, sì” e da quel momento non si ri separarono più. Benedetti arriva a Roma nel 1937, per lavorare a Omnibus, diretto da Longanesi, poi nel 1939 arriva l’esperienza di Oggi. Con questi giornali hanno cambiato proprio il modo di fare giornalismo. Loro erano intellettuali che capivano che dovevano fare il loro dovere, perché l’ intellettuale deve pensare, non è che sostituisce il paese, ma deve pensare con e per il paese, con le altre classi sociali. Anche l’idea di giornalismo che hanno loro, al di là della spinta straordinaria del magistero di Longanesi, è quella di un giornalismo che raggiunga la gente, con la cronaca, con le illustrazioni. Loro hanno cercato sempre un giornalismo di discussione, di immagini. Oggi invece non si riesce a capire ciò che succede, perché non c’è più la possibilità di avere un’informazione che sia attendibile, hanno distrutto anche la possibilità di una informazione. Non ti puoi fare un’idea, devi parlare per slogan. E per avere poi un’idea fondata sul bianco o sul nero. E poi ci sono queste opposizioni rigide, ideologiche, precostituite. Non è così la politica.

C’è un giornalismo schierato, troppo di parte. Gli spazi del giornalismo libero e indipendente sono sempre più ristretti, si creano sempre più fanatismi proprio perché il giornale o è di A o è di B”.

Anche se ne abbiamo già in parte parlato, quale fu il loro atteggiamento nei confronti del fascismo negli anni 30?

“Ci possiamo riferire a quello che diceva Beppe Ardinghi, che era un po’ il leader del gruppo. Lui diceva che non avevano una grande preparazione politica, però su una cosa convenivano tutti: “Non ci piaceva – diceva Ardinghi – la volgarità dei fascisti, quelli che entravano con gli stivaloni, parlavano di donne, di amori senza rispetto”. E invece questi erano giovani evidentemente sensibili, educati in un certo modo, sembra proprio un altro mondo, anche un mondo ottocentesco per certi versi. Dipende anche dall’educazione che ti dà la gente, anche le mamme. Erano persone che avevano una sensibilità molto forte. Non gli piacevano le parolacce, la volgarità, queste esibizioni militaresche, per la violenza. Non bisogna dimenticare che Lucca era la città di Scorza, non era la città di un fascismo soft, ma di un fascismo deciso e anche feroce; la mia nonna mi diceva sempre che al caffè Savoia lei non ci metteva piede perché ricordava sempre Carlo Scorza seduto ai tavolini fuori con Amerigo Dumini, l’assassino di Matteotti. Mia nonna non ci metteva piede, passava con i figli e diceva, no! Perché Scorza si faceva vedere con Dumini davanti al caffé”.

Questi ragazzi durante gli anni 30, a Lucca, riuscirono a stare ai margini, come in disparte. Anche se a Roma o negli altri luoghi dove operarono assunsero anche incarichi importanti, pur non essendo antifascisti militanti, non possono essere considerati simpatizzanti per il fascismo.

“Non ebbero compromissioni con il fascimo anche se è vero che qualcuno ha poi trovato da ridire dei rapporti con Longanesi. Forse quello più consapevole dal punto di vista ideologico era per ovvie ragioni Pannunzio. Il padre si occupava attivamente di politica, ma lui sicuramente non avrà amato il fascismo. Erano giovani e appunto mediavano un po’, però sicuramente fascisti no. Non bisogna dimenticare inoltre che c’è stato un periodo all’inizio degli anni ’30, quando Mussolini lanciò la cosiddetta Terza ondata del Fascismo, nel 1933–1934, quando si rivolge ai giovani, in cui poteva sembrare che ci fosse la possibilità di un mutamento anche nella vita politica. E non bisogna dimenticare che la politica di Bottai era quella di un fascismo per cui se sei un intellettuale ti sostiene anche economicamente; Gugliemo Petroni l’ha raccontato, ha raccontato che Bottai l’ha mandato a chiamare, gli ha offerto del denaro, se aveva necessità di denaro”.

Passiamo al loro impegno nel dopoguerra, quando, loro che erano intellettuali formatisi sia in campo letterario che artistico, si erano tuttavia entusiasmati per la politica.

“Sì perché c’era l’idea che dovevi ricostruire l’Italia. Quello che è bellissimo è che tutti questi giovani, come intellettuali, credevano talmente nella cultura che pensavano che la cultura potesse dare un contributo alla creazione della nuova Italia post-fascista e democratica, appunto impegnandosi. Quindi erano scrittori, giornalisti che credevano fortemente a questa possibilità di cambiamento perché il loro giornalismo era, è vero, diretto a tutti, ma soprattutto alle classi dirigenti. Volevano formare delle nuove èlite, non seguivano le verità ufficiali, erano giornalisti che la verità la andavano a cercare sul posto, pensiamo all’inchiesta sulla morte del bandito Salvatore Giuliano in Sicilia. Ma poi si vede meno bene anche l’idea del giornalismo dal famoso ordine di servizio che fece quando arrivò a Paese Sera”.

E gli altri esponenti di quello che era stato il gruppo del Caffè Di Simo, tipo Beppe Ardinghi, come vissero questa passione politica dei loro amici diciamo più famosi?

“Anche chi era rimasto a Lucca aveva continuato a collaborare ai giornali di Benedetti, e comunque lo stesso Beppe Ardinghi o Romeo Giovannini vi collaborò, mentre Petroni in misura minore perché Benedetti diceva che era meno giornalista. Ma gli altri si mandavano e scambiavano i pezzi, le illustrazioni.

Questi erano intellettuali a tutto tondo: Pannunzio era giornalista, pittore, saggista, critico cinematografico; Giuseppe Ardinghi era pittore, scultore, scrittore; Guglielmo Petroni era pittore, poeta, prosatore. Romeo Giovannini era giornalista, poeta, traduttore, il più grande del novecento; Benedetti giornalista, scrittore, critico. In questo mondo di specialismo, per cui la mediocrità detta legge all’intelligenza e al talento, uno che è scrittore e giornalista è troppo per la mentalità piccolo borghese e soprattutto per una mentalità che ha rigettato l’umanesimo”.

Parliamo un po’ anche di Daniela Marcheschi, su quali fronti si sta muovendo?

“La mia attività attuale è fatta dalla presidenza dell’Edizione Nazionale delle opere di Carlo Lorenzini, promossa dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi che è un grandissimo impegno, in 14 volumi. Ora siamo al secondo volume. Stiamo preparando il terzo, dedicato a Pinocchio con la prefazione di Mario Vargas. Sono inoltre presidente di un progetto europeo che riguarda la promozione dell’intercultura, e che punta sulla maturazione di una preparazione interculturale dei giovani: questo progetto ha già preparato i docenti e ora sta preparando in tal senso i giovani di mezza europa, ed è promossa dalla fondaizone Collodi, dalle Università di Madeira e Salonicco, è un progetto europeo con molti partner.

Lavoro anche per il CLEPUL, Centro Studi delle letterature europee di espressione portoghese dell’Università di Lisbona”.

Una vocazione decisamente internazionale.

“Sono convinta che non ci si può richiudere nel locale, oggi i finanziamenti importanti si chiedono a Bruxelles, la cultura italiana deve recuperare le sue grandi visioni del passato. Altrimenti il rischio è che l’Italia rimanga indietro come paese”.

Lucca: Daniela Marcheschiultima modifica: 2011-02-09T10:20:00+01:00da minobezzi1
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