Lucca: La morte del fiume

 

NAZARENO GIUSTI per loschermo


“Anche un fiume può morire”. Se ne accorge Stefano Calzolari nel vedere il suo fiume, ilSerchio, dopo trent’anni. Da tre decenni manca dalla sua città, Lucca. Il suo ritorno non è voluto o dettato dalla nostalgia, ma casuale: un incarico conferitogli dal suo ufficio, una ispezione come tante altre, in altri luoghi. Pensa, per questo, di poter affrontare la situazione con animo predisposto, pensa di poterla padroneggiare. Ma non sarà così.

Si accorgerà della propria vulnerabilità di fronte all’irrevocabilità dei luoghi, come una sensazione inattesa: “un formicolare di assolate felicità lontane”, i felici ricordi della giovinezza trascorsa sulle rive del Fiume testimone di giochi e divertimenti. Il fiume, simbolo dell’eternità, ora però è irriconoscibile, agonizzante: un liquido opaco, marrone scuro di “viscidezza velenosa”. Alla vista di questa mutazione Stefano non può fare a meno di pensare al tempo, al suo passare rapinoso che travolge aspettative e ideali, interrogandosi sul perché si è destinati “a vederlo disfare come il volto di una fanciulla morta”?

Si apre così “La morte del fiume” di Gugliemo Petroni, pubblicato per la prima volta nel 1974 e vincitore, sempre in quell’anno, del premio Strega. Ripubblicato nel novembre appena passato in occasione del centenario della nascita,  su iniziativa dell’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti, da Maria Pacini Fazinella collana “Grandi narratori lucchesi” diretta da Paolo Vannelli che ha curato l’interessante introduzione. Una scelta non casuale quella di stampare il volume di Petroni  che parla di Lucca e del Serchio, ma anche- come scrive nella sua presentazione Raffaello Nardi, presidente dell’Accademia- degli uomini“protagonisti del contesto sociale, politico ed economico che nel tempo generarrono anche le trasformazioni ambientali del territorio urbano e la morte del fiume”.

Un romanzo sul ritorno, una rivisitazione non indotta dalla nostalgia quanto da una volontà di investigare, nel tempo e nello spazio, soprattutto– come dice Vannelli-“scavare dentro se stessi per conoscersi , perchè solo da lì può aprirsi la strada verso gli altri”.

Avvicinandosi a Lucca, Stefano Calzolari, il primo dei due a comparire in scena, non riesce più a “pensare con ordine”, è perturbato da sentimenti di “fastidio” e di“attesa”, ciò che vedeva non somigliava a niente di quanto aveva fatto da sfondo al memoriale della propria adolescenza.
Con il passato tornano alla mente tanti personaggi, tante microstorie che Petroni, con poche pennellate, ci dipinge in maniera indimenticabile.

Come il Baccelli, “l’uomo che accende i lampioni” e con il suo gesto  che lui credeva eterno, “annunciava l’ora della cena, l’ora silenziosa, l’ora del ritorno degli uomini dal lavoro, o dall’osteria”.

Ma La Morte del fiume è anche un romanzo di formazione, anzi  due i romanzi di formazione, perché due sono i protagonisti: (il già citato) Stefano e Sante Martelli “con le loro storie che procedono parallele, evidenziano l’una a confronto con l’altra il loro significato, ma evidenziano pure quanto di simile nella diversità c’è nel destino degli uomini”.

Tornato a Roma dal viaggio Stefano, infatti, incontra Sante che dei due sembra il più disilluso e il più restio al ritorno: “quello che andiamo cercando noi non c’è più, anzi forse quello che cerchiamo e che crediamo che sia il nostro passato non è mai esistito, è differente, noi cerchiamo ciò che vorremmo, ma la realtà è che anche un fiume può essere morto”.

Nonostante tutto, Stefano, riesce a convincerlo a tornare a Lucca. “C’è chi – afferma Sante-torna nei luoghi della gioventù, dell’infanzia e non riesce più a trovare nulla: gente che potrebbe anche non essere esistita. C’è chi cerca ciò che non è mai esistito, perché ha detto di sé, a se stesso, cose non vere. C’è chi ha tramutato la propria realtà passata in un mito e, se lo ricerca, si perde.”

Sarà un esperienza forte, un conto con il passato, quasi  una catarsi. “Se abbiamo strappato a questi luoghi quello che di noi si erano trattenuti, ora finalmente ce ne siamo liberati” riflette Stefano alla fine del romanzo, e ancora: “il mondo si allarga intorno a noi quanto più si resta fedeli alle origini, se uno perde l’immagine della propria origine perde se stesso, finisce per nutrirsi di parvenze”.

Scrive, a proposito, Moreno Montanari in “La filosofia come cura”: “Noi siamo l’esito di quanto abbiamo vissuto, siamo ciò che ci è accaduto e il modo in cui lo abbiamo elaborato. Il nostro presente comprende tutto il nostro passato e ogni volta che diciamo di sì ad un solo istante della nostra vita la riaffermiamo nella sua interezza. La capacità di accettare l’irreversibilità del tempo che passa, ma non sparisce, può dare vita ad un nuovo inizio che dà slancio al futuro proprio in quanto sa redimere il passato”.

Già, e le parole di Montanari sembrano spiegare il lucido concetto di Sante: “Gli uomini temono il proprio avvenire, ma è del passato che debbono aver paura. Se non lo sanno ritrovare in tutta la sua realtà, non trovano se stessi, ed il loro avvenire è l’incognito”.

Lucca: La morte del fiumeultima modifica: 2012-01-16T10:18:35+01:00da minobezzi1
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