Campo nell’Elba (LI): Il verme di Sant’Andrea


 

Pnas ha pubblicato la ricerca “Metaproteomics of a gutless marine worm and its symbiotic microbial community reveal unusual pathways for carbon and energy use”, realizzata da un team proveniente da Germania, Gran Bretagna ed Usa, ed alla quale ha partecipato anche Christian Lott, che lavora anche al centro marino dell’Hydra Institute for marine sciences, a Fetovaia, Campo nell’Elba, nel quale si analizza l’evoluzione delle strategie simbiontiche, un meccanismo chiave tra gli organismi marini per superare le limitazioni poste dalla bassa disponibilità di nutrienti ed energia.

Studiando il verme di Sant’Andrea i ricercatori hanno potuto dimostrare per la prima volta che alcuni simbionti utilizzano monossido di carbonio come fonte di energia, oltre a solfuro di idrogeno e idrogeno. Ma il team inizialmente era scettico sui risultati in laboratorio e quindi è andato a misurare il monossido di carbonio nella sabbia dove i vermi vivono ed ha trovato concentrazioni sufficientemente alte. L’utilizzo dell’idrogeno come fonte di energia per simbiosi animali-batteri erano stato scoperto solo di recente in cozze di alto mare dal Symbiosis Group del Max Planck Institute di Brema e il suo ruolo in acque poco profonde simbiosi sarà ora riesaminato in modo approfondito.

Il team spiega che «Particolarmente suggestive sono le associazioni tra batteri chemiosintetici e gli animali marini che prosperano in ambienti poveri di nutrienti, come il mare profondo, perché i simbionti permettono ai loro ospiti di crescere in materia di energia e di fonti di carbonio inorganico, come il solfuro e la CO2. Si Sa Notevolmente poco sulle strategie fisiologiche che consentono alle simbiosi chemiosintetiche di colonizzare ambienti oligotrofici». In questo studio, abbiamo utilizzato la metaproteomica e la metabolomica per studiare l’intricata rete di interazioni metaboliche in un’associazione chemiosintetica tra Olavius algarvensis , un verme marino “gutless” e dei suoi batteri simbionti».

In una precedente ricerca (Cicli trofici in ambienti “estremi” – Riciclo dei nutrienti) pubblicata dall’università di Pisa nel 2006, Marco Plebani spiegava che Olavius algarvensis è stato scoperto nel 2001 all’Isola d’Elba, nelle acque di fronte a Capo Sant’Andrea da un team di ricercatori capeggiato da Nicole Dubilier, e la scoperta è stata resa nota su Nature (Endosymbiotic sulphate-reducing and sulphide-oxidizing bacteria in an oligochaete worm).

«Esso vive infossato entro i primi 20 cm di sedimento, nella sabbia attorno alle praterie di Posidonia oceanica, a pochi metri di profondità – spiega Plebani – Le sue dimensioni sono molto contenute: 0.2 mm di diametro per 2-3 cm di lunghezza. Un’analisi morfologica rileva la totale assenza tanto dell’apparato digerente quanto di quello nefridiale: se la riduzione dell’apparato digerente come adattamento alla simbiosi non è una novità negli anellidi simbionti (cfr. paragrafi precedenti), lo è invece la scomparsa del sistema escretore, fenomeno mai osservato in precedenza. Questo fatto deve indubbiamente avere un ruolo nella simbiosi: se i cataboliti di scarto non fossero in qualche modo sfruttati dai batteri simbionti, infatti, l’ospite non potrebbe sopravvivere, ucciso dai suoi stessi rifiuti. Ecco dunque come si articola il ‘ménage à trois’ tra O. algarvensis e i suoi simbionti. La respirazione di O. algarvensis avviene per via epidermica: attraverso l’epitelio esso assorbe ossigeno O2, ma anche CO2 e zolfo ridotto. Queste sostanze raggiungono rapidamente i gamma-proteobatteri solfo-ossidatori che si trovano immediatamente sotto l’epidermide: la rapidità del trasporto è essenziale soprattutto per S2- , poiché esso, necessario al metabolismo batterico, è invece tossico per il polichete. I batteri solfo-ossidatori operano analogamente a quelli presenti nelle sorgenti idrotermali: sfruttano l’energia liberata dall’ossidazione dello zolfo per fissare la CO2, ottenendo così carbonio da utilizzare nella sintesi di molecole organiche. Parte della sostanza organica così prodotta viene assorbita dai tessuti del verme, che la utilizza come substrato per il metabolismo anaerobico. O.algarvensis non può espellere i prodotti di scarto della fermentazione che si accumulano nei suoi tessuti, data l’assenza di organi nefridiali: queste sostanze vengono invece assorbite dai solfo-riduttori (δ-Proteobacteria), che le utilizzano come fonti organiche di carbonio ed energia. L’accettore finale di elettroni dei solfato-riduttori è il solfato SO4, che viene ridotto a solfuro; la loro fonte di solfato è rappresentata dai γ-Proteobacteria, che a loro volta assorbono prontamente lo zolfo ridotto dai δ-Proteobacteria per sfruttarlo a fini metabolici. I vantaggi ottenuti dai simbionti sono evidenti. O.algarvensis viene nutrito dai gammaProteobacteria, suoi simbionti primari, mentre i delta-Proteobatteri lo liberano dei suoi rifiuti metabolici; d’altra parte i batteri ottengono dall’anellide i substrati loro necessari per la vita, a concentrazioni che non sono riscontrabili nell’ habitat del polichete: essi riescono così a colonizzare aree a loro normalmente precluse. Infine, gamma- e delta-proteobatteri formano un ciclo dello zolfo pressoché chiuso e (quasi) autosufficiente, assicurandosene a lungo l’approvvigionamento».

Ma lo studio pubblicato su Pnas va oltre queste prime scoperte e rivela nuovi e sorprendenti aspetti della vita di questo piccolo verme marino elbano: «Proponiamo percorsi non descritti in precedenza per affrontare la limitazione di energia e nutrienti, alcuni dei quali possono essere diffusi sia nei batteri a vita libera che simbiotica. Queste pathways includono un percorso di assimilazione simbionte rifiuti prodotti dell’ospite: acetato, propionato, succinato e malato, l’utilizzo potenziale di monossido di carbonio come fonte di energia, un substrato non precedentemente noto svolge un ruolo nella simbiosi degli invertebrati marini simbiosi, il potenziale uso di idrogeno come fonte di energia, la forte espressione di trasportatori ad alta affinità di assorbimento, e ancora non descritti steps di efficienza energetica nella fissazione di CO2 e nella riduzione di solfato. L’alta espressione di proteine coinvolte nei meccanismi di assorbimento di energia e di carbonio e la conservazione nella simbiosi di O. algarvensis, indica che la natura oligotrofica del suo ambiente ha esercitato una forte pressione selettiva nel plasmare queste associazioni».

Quindi il piccolo verme può ottenere energia da solfuro di idrogeno e monossido di carbonio e i ricercatori del Max Planck Institute for Marine Microbiology spiegano: «Strettamente parlando il verme consente a milioni di suoi piccoli aiutanti di fare il lavoro: Olavius algarvensis che vive in acque poco profonde, proprio di fronte alle spiagge, porta diversi batteri simbionti sotto la sua pelle che sono in grado di utilizzare queste sostanze, note per essere tossiche per gli animali, per produrre cibo per la comunità simbiotica. Il verme non mangia affatto. Durante l’evoluzione ha ridotto la bocca, l’intestino e l’ano, è completamente dipendente dai batteri che abitano dentro di lui».

Nicole Dubilier, che ha guidato il team sottolinea l’importanza di un approccio interdisciplinare in un team di esperti: «Il verme ci offre un esempio della potenza dell’evoluzione. Nel corso di milioni di anni, l’adattamento e la selezione hanno portato allo sviluppo di un adattamento ottimale del sistema ospite-simbionte. E questi vermi apparentemente modesti sono un modello eccellente per una migliore comprensione di altre simbiosi complesse, come quelli dell’intestino umano».

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Campo nell’Elba (LI): Il verme di Sant’Andreaultima modifica: 2012-04-19T19:13:00+02:00da minobezzi1
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