Lucca: Guglielmo Petroni

 

NARENO GIUSTI per loschermo

Guglielmo Petroni è stato ricordato, nel centenario della nascita, alcune settimane fa, nel corso di una due giorni di incontri organizzata dall’Accademia Lucchese di Scienze ed Arti.

Intanto, la prestigiosa Sellerio ha dato alle stampe Il nome delle parole (opera vincitrice del premio Selezione Campiello nel 1984) un autobiografia  esemplare ed essenziale che ci fa conoscere meglio uno scrittore di grande sensibilità.

Un racconto che va dalla “casa povera” alla “casa giusta”, cioè dalla prima infanzia agli anni dell’affermazione.

Scandito in tre tempi: il tempo dell’infanzia (in cui un essere sensibile alla bellezza apre gli occhi dentro “una vita povera che non conosce il nome dei colori e nemmeno quello delle parole”),  il tempo dell’adolescenza (in cui sente il bisogno imperioso “di impossessarsi delle parole necessarie per adeguarsi agli oscuri sovvertimenti che le nuove immagini avevano provocato nel mio povero spazio spirituale”) e il tempo della giovinezza e della maturità quando “scoprivo che gli idoli potevo sistemarli tranquillamente nel mio quotidiano”.

Il racconto, insomma, di una vita dedicata alla cultura. Una scelta fatta, inconsciamente negli anni della fanciullezza.  Una scelta che può sembrare una sfida ( o un torto) al destino.

Gugliemo, infatti, avrebbe dovuto vivere un altro tipo di vita: semianalfabeta fino all’adolescenza, aveva cominciato a lavorare nella bottega paterna di scarpe a dieci anni.

Aveva scoperto quasi per caso la pittura, alla quale si dedicò incoraggiato da Rosaie Carrà per poi abbandonarla d’improvviso (quando una notte tele e disegni bruciarono nell’ incendio che divorò il suo studio). Si avvicinò poi alla scrittura. Ad una delle sua primissime poesie venne assegnato, nel 1934, il premio La Cabalache favorì il suo inserimento nel mondo letterario fiorentino che aveva il suo epicentro nel leggendario Caffè delle Giubbe Rosse. Dve iniziò a collaborare, con scritti e disegni, a Il Selvaggio di Mino Maccari e a L’Italiano di Leo Longanesi.

Il volume edito da Sellerio si apre con una bella prefazione, anzi, un bel ricordo diAndrea Camilleri che scrive: “Nella mia vita ci sono stati due libri che mi hanno formato non come scrittore, ma come persona. Il primo era stato La condizione umana di Malraux, il secondo indubbiamente fu Il mondo è una prigione di Guglielmo Petroni”.

Già, Il mondo è una prigione.

Uno dei più potenti e genuini racconti nati dall’esperienza della Resistenza. Il suo primo libro pubblicato dopo la guerra-più volte ristampato e vincitore nel 1965 del Premio Nazionale Prato-in cui narrava le vicende che lo videro protagonista durante la guerra: arrestato dai tedeschi, era stato prigioniero nell’ inferno nazista di Via Tasso trasferito al terzo braccio di Regina Coeli. Lo avevano picchiato, torturato, condannato a morte. Si era salvato dalla fucilazione solo per un caso fortuito. 

Un evento che lo aveva segnato ma di cui parlava con sereno distacco. In modo riservato, sobrio, essenziale e onesto. Alla sua maniera. 

“Nella narrativa non ho affrontato nulla che non avesse stretta parentela con quanto ho vissuto, o addirittura, come per “Il mondo è una prigione” e per quest’ultimo libro “Il nome delle parole”, non corrispondesse alla più rigorosa autobiografia. Naturalmente, autobiografia o esperienze elaborate, non certo per raccontare casi che mi riguardano, ma trovare in essi, come nelle vicende d’ogni vita terrena, anche la più modesta, quei significati che scavalcano la lettera e possono assumere il ruolo di comunicazione. Dell’arte, del suo potere sull’uomo, dei suoi segreti, lo scrittore è meglio che lasci parlare gli altri”. Confessò così, in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa all’Università di Sassari.

Quel giorno era emozionato come un ragazzino perché “ero un autodidatta e non ero mai stato laureato”.

Questa laurea mi ringiovanisce-disse- mi restituisce quello che non ho avuto a venticinque anni, perché gli eventi della mia vita mi hanno impedito studi regolari”.  

Pochi anni dopo morì, a Roma.

Aveva scritto nel suo testamento: “Credere in qualche cosa, qualsiasi essa sia, che rappresenti la propria vita, è un modo per cercare di credere in Dio e dare una ragione all’ esistenza. Non ho mai condannato nessuno fuorché me stesso, non ho giudicato, ma scelto in me e negli altri ciò che poteva avere un senso e dar valore allo spirito di solidarietà ed amicizia nel quale risiede il primo stadio per lo spirito di grazia e di serenità. Dove ho peccato chiedo perdono. Dove sono stato umiliato là è una lacuna della mia memoria. Puci, Paolo, Luca (la moglie e i figli, ndr) quando sarà il momento, non piangetemi, ricordatemi per ciò che ho fatto che vi rese contenti e meditate su ciò che nei vostri confronti errai. Vi ho amato. Spero di lasciare le mie carte in ordine. Se ciò non fosse non sarà difficile ritrovare quel poco che prima di essere buttato e dimenticato, può anche essere utile e avere qualche interesse. Felici si è poche volte e dipende poco da noi; ma la serenità è cosa che si può avere con semplicità di spirito e capacità di comprendere, di sopportare quando è necessario. Occorre aiutare gli altri dove si può, come si può”.

Lucca: Guglielmo Petroniultima modifica: 2011-12-24T09:33:14+01:00da minobezzi1
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