La memoria di quando, nella seconda metà inoltrata del secolo scorso, la città si opponeva strenuamente all’ingresso di McDonald’s è tanto vivida quanto sbiadite ne sono le conseguenze. Altro che McDonald’s, ormai: viene amaramente da ridere al ricordo. Siamo pieni zeppi di kebab, minimarket di ogni squallore, cineserie, catene fatte in serie persino per il gelato, inglesate e americanate di ogni tipo. Anonime rivendite di pizza a taglio e cibi globalizzati di ogni genere hanno rimpiazzato le friggitorie tipiche della tradizione fiorentina, una volta colme di sanguinacci, sommommoli, coccoli, ciambelle e bomboloni; i pochissimi trippai-lampredottai rimasti sono costretti all’hot-dog, all’hamburger e alla Coca Cola per sopravvivere; la ribollita, la pappa col pomodoro e i fagioli all’uccelletto ormai li trovi solo nei ristoranti dai prezzi esosi. E questo per limitarci ai generi commestibili. Ma è ogni cosa che sta cambiando, disumanamente in peggio, segnando una progressiva e sempre più veloce perdita di peculiarità del luogo e dei suoi abitanti.
Le librerie, ad esempio. Dove sono finite le piccole, adorabili, intime, suggestive librerie piene di atmosfera e di odor di carta, e a quante unità si sono ridotte le bancarelle di libri usati su cui fare gustose, personalissime scoperte? Non sembra esserci più alternativa: o grandi supermercati editoriali dalle luci abbaglianti, tutti uguali, senza alcuna personalità, stracolmi di volumi tirati a lucido, o si chiude. Ma ora persino le grandi chiudono: che ce ne facciamo più dell’ingombrante oggetto-libro nell’epoca del virtuale tascabile onnicomprensivo? Così perdiamo un prezioso, fedele, insostituibile amico di carta, capace di rassicurarci anche solo facendosi tenere in mano senza necessariamente essere letto. E i cinema. Cultura che se ne va. Negli ultimi dieci anni a Firenze ne sono stati chiusi 29, di cui 9 negli ultimi dieci mesi. Ma sorgono le multisale, incredibili accozzaglie di disumanizzanti attività ricreative d’ammasso in cui il film non è più opera culturale, ma puro pretesto, meglio se di infima qualità. Il bello è che un sacco di gente mi dà ragione su questi argomenti, ma poi la stessa gente va ad affollare i mostri di cui sopra.
Siamo un gregge senza voce, tranne un debole belato. Chi deve alzarla, allora, questa voce? Se il gregge non ha più fiato, tocca a chi lo conduce: ma serve un pastore più attratto dalla qualità del pascolo che dagli affari che gli farà fare la lana delle proprie pecore.
E’ possibile che una città non riesca a proteggere la propria identità – se non per buon senso comune – almeno per legge, decreto, delibera, ordinanza? E’ così fuori dal mondo inventarsi qualche divieto oltre a quello di sosta? Davvero l’indiscriminata libertà di commercio significa anche vera libertà di scelta? E che lo stesso succeda nelle altre città giustifica il fatto che debba necessariamente succedere anche nella nostra? E’ più che giusto adeguarsi al vivere contemporaneo, ma profondamente sbagliato rinnegare le proprie eccellenze o barattarle con le mediocrità altrui. Alla fine, schiacciata tra vetrine di grandi firme e infimi negoziucci da terzo mondo, priva di quella rassicurante e più umana, nostrana, riconoscibile via di mezzo, Firenze sarà proprio uguale a tante altre città del pianeta, e le sue bellezze mummificate a quel punto sembreranno persino superflui e fastidiosi bubboni fuori posto. Arriveremo a tirar giù il Duomo e Palazzo Vecchio per farli rifare da un qualunque Isozaki di passaggio.
Per andare avanti bisogna anche saper voltarsi indietro. Come potrebbe un saltatore con l’asta superare l’ostacolo senza conficcare il suo attrezzo nella buca? E allora forza Firenze, salta, sali, vola… Rizzati, ma partendo, come ogni grande albero, dalle tue profonde e sane radici.