Brozzi (FI): Osvaldo Bracaloni

Elena Giannarelli per toscanaoggi

Quando all’ammiraglio Vianello, severo ufficiale di marina, si presentò il figlio Raimondo per comunicargli che, nonostante la scelta di giurisprudenza, avrebbe fatto teatro, forse la pillola fu resa meno amara dal fatto che il ragazzo, biondo, alto, dall’aspetto del gentleman inglese, avrebbe debuttato nella parte di un graduato americano. L’austero signore dette il suo consenso e da quel momento lo spettacolo italiano trovò un grande personaggio. Per la cronaca, la rivista era «Cantachiaro n.2» di Garinei e Giovannini.

L’episodio è stato evocato nei giorni tristi della scomparsa di Raimondo Vianello, morto il 15 aprile scorso all’età di quasi 88 anni. All’attore romano, nelle commemorazioni di autorevoli critici, colleghi, addetti ai lavori del mondo dello spettacolo, sono stati attribuiti garbo, signorilità, eleganza, comicità mai volgare o priva di misura. Bravura, vis comica, ironia lo contraddistinguevano; a queste doti si devono aggiungere tre incontri importanti, che ne hanno segnato vita e carriera.

Al primo posto doverosamente si colloca quello con Sandra Mondaini, sua moglie e compagna di lavoro. Insieme dal 1958, sposati da quasi cinquant’anni, sono stati i coniugi del piccolo schermo: lei ironica, svampita, lui eccezionalmente caustico nei confronti di quella piccola, elegante signora, dal passato anche di clown, ma sempre su coordinate giuste per una intesa cementata dalla vita. La sit-com «Casa Vianello», in onda su Canale 5 dal 1988 al 2007 ritraeva il quotidiano di due coniugi che, al di là delle battute, lavoravano e pensavano in sincrono. Lo hanno dimostrato poi vicende svoltesi nel più assoluto riserbo, magari affiorate come oggetto di «riso»: il cancro sconfitto da entrambi, l’adozione di una intera famiglia filippina. La dimensione di quella intesa è stata evidente al momento del funerale, nella faccia stravolta di Sandra e in quel suo gridare il nome Raimondo.

Il secondo e il terzo incontro sono stati quelli con con due fiorentini, Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi, una grande ditta del teatro comico, approdata al piccolo schermo e con Ugo Tognazzi. Si era negli anni Cinquanta. Nella nascente televisione lo spazio per una comicità intelligente era ampio. Scarnicci e Tarabusi come autori, Tognazzi e Vianello come attori se lo presero tutto, con una trasmissione che si chiamava «Un due tre». Settantasette puntate, fino al 1959, consacrarono «quei due» come coppia comica strepitosa: non è possibile dire chi facesse la spalla a chi. I «ragazzacci» riproponevano in chiave ironica trasmissioni di successo e proprio questo spiazzava il pubblico: la tv faceva il verso a se stessa, prendeva in giro bonariamente i suoi stessi protagonisti. In coppia poi gli esiti erano davvero eccezionali. Ugo Zatterin e Giovanni Salvi nel 1959 avevano firmato otto puntate del programma inchiesta «La donna che lavora», che offriva una campionatura di storie di lavoratrici dalla Val Camonica alla Puglia. La trasmissione ebbe grandi consensi. La risposta fu immediata: Vianello in trecce bionde, cappello di paglia, pantaloncini corti, ispirandosi alla Mangano di «Riso amaro», era una mondina, lavorava una settimina e lamentava la condizione di ragazza esposta ai rischi di un mestiere duro e di uomini senza scupoli; Tognazzi, sotto un lampione, tormentando un boa di struzzo e roteando una borsetta, era la mondana, che lavorava una settimana.

Il tutto finì per un incidente con la censura, allora molto vigile. Era successo che in una serata di gala a La Scala, con De Gaulle in visita di stato, a Gronchi era mancata la sedia sotto al sedere ed era caduto. Vianello il 25 giugno 1959 in trasmissione tolse la sedia a Tognazzi e al collega seduto sul pavimento rivolse una domanda capolavoro: «Chi ti credi di essere?». Fu la fine di «Un due tre», ma l’inizio di un mito.

Sempre con la complicità di Scarnicci e Tarabusi, nella trasmissione «Il giocondo» nacque un personaggio memorabile: il carrellista televisivo Osvaldo Bracaloni da Brozzi, periferia di Firenze, paese di Toscana legato alla memoria del famoso strologo. Con la complicità degli autori, che gli spiegarono evidentemente bene i caratteri delle genti nate nella piana a ovest delle Cascine, l’elegante Raimondo riuscì ad inventarsi una andatura dinoccolata che lo rese del tutto credibile come uomo di fatica in tuta blu, leggermente chino in avanti, con una allure corrispondente al cognome. Bracaloni era un condensato di ingenuità e di lapalissiana concretezza. «Sono Svardo e quando sudo mi fa cardo»: questo era il suo biglietto da visita, per spiegare le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte sotto il calore dei riflettori e in un continuo vortice di soubrette e ballerine, capaci di accendergli bollenti spiriti. Ma lui, Svardo, purtroppo aveva altro a cui pensare: il suo chiodo fisso era il capo, il Taracchi, un omone grande e grosso come un armadio, con cui aveva un contenzioso aperto. Lo sfidava di continuo, con un suo grido di guerra: «Taracchi, un tu m’attacchi». Regolarmente l’altro lo «attaccava», ossia lo appendeva per il bavero della tuta, lasciandolo a dondolare fra «giraffe» (i vecchi microfoni in cima a impalcature) e carrelli. Erano sconfitte momentanee: un Bracaloni non poteva essere domato perché: «Noi di Brozzi, più che tu ci sfotti e più che tu ci aizzi». Parole sue, che riflettevano la filosofia dell’intero paese, frazioni comprese. C’era tuttavia una persona che gli faceva perdere la testa e di cui era devotissimo: la «sor’Abbe», l’«Abbelane», ossia Abbe Lane. Era la bionda, avvenente ballerina e cantante americana, ospite fissa della trasmissione, sogno proibito del pubblico maschile di allora. Bracaloni fu solo il primo di una serie di personaggi che fecero ridere tutta l’Italia: il grande Raimondo divenne perfino Gino Bartali, alle prese con il direttore sportivo Everardo Pavesi, e fu uno dei pochi non toscani a riuscire a dire in modo credibile: «Tito, te t’ha ritinto i’ tetto, ma te un tu te ne intendi tanto di tetti ritinti, tonto».

Ironia, distacco, signorilità gli furono poi utili anche per sdrammatizzare situazioni sportive delicate, come conduttore di «Pressing» ed ospite di tante altre trasmissioni a cui partecipò per il suo amore per il calcio.

Con la sua scomparsa si è chiusa un’epoca televisiva. Ci restano spezzoni in bianco e nero e registrazioni a colori che i giovani dovrebbero vedere per ricavare una semplice verità: impegno, talento, intelligenza sono essenziali per una comicità vera. Quella che fa ridere, certo, ma anche riflettere ed è capace di aiutare a comprendere la realtà.

Brozzi (FI): Osvaldo Bracaloniultima modifica: 2010-04-23T09:19:03+02:00da minobezzi1
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