Carrara: Ai tempi dei buoi

Carraraonline ha pubblicato questo breve saggio che eccolatoscana ha il piacere di sottoporre ai propri lettori:

Mentre fiumi d’inchiostro sono stati versati per descrivere Carrara e il suo marmo, impiegato da secoli per innalzare statue e templi meravigliosi in tutto il mondo, poco o nulla è stato scritto su chi ha permesso che tutto questo fosse possibile: il bue.
Usato fin dal tempo dei Romani per trasportare il “marmor Lunense” dalle cave fino all’antica città di Luni per l’imbarco, questa sorta di “marmifera pelosa”, è rimasta in funzione pressoché ininterrottamente per quasi due millenni. Infatti, mentre le tecniche di estrazione del marmo in cava evolvevano con il passare dei secoli, non altrettanto accadeva per il trasporto dello stesso, affidato in sostanza allo stesso modello di carro a quattro ruote, usato pare, addirittura dagli Etruschi.

Sono molto scarse le notizie riguardanti quest’argomento, soprattutto perché i cronisti antichi, sia Romani che medievali, trovavano disdicevole per la loro onorabilità professionale, scrivere cose riguardanti argomenti ritenuti di scarsissimo interesse, come ad esempio descrivere la vita di un contadino, di un pastore, o di un cavatore. Quello che sappiamo, si è estrapolato dalla lettura di documenti scritti su altri argomenti ritenuti molto più importanti, ma che per qualche ragione riportavano brandelli di notizie al riguardo, come ad esempio “… Filippo Orsini proprietario di tredici para di bovi …” scritto in un testamento. Per moltissimo tempo si è usato un solo tipo di carro per trasportare il marmo, semplicissimo e molto robusto, questo veicolo era caratterizzato da due grossi travi di faggio o castagno, collegate tra loro da un solido tavolato, che poggiavano trasversalmente, su due assi dello stesso legno, su cui erano montate le ruote, molto piccole e massicce, e cerchiate in ferro. Le due anteriori, tramite un perno, potevano essere direzionate da un timone costituito da una lunga asta di legno, che era fissata al giogo della prima coppia di buoi. Questo carro, era in grado di trasportare carichi fino a circa quaranta tonnellate, e potevano esservi aggiogate decine di coppie di buoi. Aveva, però un grosso difetto, mentre era adattissimo per il traino, non lo era per niente per l’eventuale frenatura, perché i buoi con il solo giogo non erano in grado di trattenere il carico.

Per ovviare a questo inconveniente era dotato di un freno molto potente, la martinicca, che in epoca medievale era costituito da due grossi tacchi di legno, che tramite una lunga leva andavano ad strusciare sulle ruote posteriori frenandole, ma che in tempi più moderni si era evoluto, ed era azionato da una manovella di ferro a vite, rendendo la frenata ancora più affidabile. Anche se molto efficace, questo sistema poteva non bastare, in situazioni estreme, come magari dopo forti piogge, o per la pendenza di un passaggio difficile, cosi, si ricorreva alla “art’nuta” (la trattenuta) come si diceva in dialetto.

Questa consisteva nel trascinare un blocco di marmo dietro al carro, come una sorta di ancora terrestre, che frenava, di fatto, il procedere dello stesso. Quando in epoca relativamente più moderna si trovò il modo di tagliare il blocco di marmo in lastre, sorse la necessità di avere un carro per il trasporto in sicurezza delle stesse. Nacque così la carretta, battezzata poi, “manbruca”. Questa era un carro a due ruote, trainato da due soli buoi, e dotato di un pianale bassissimo dal suolo, su cui erano montate due alte sponde, molto strette, adatte a trattenere le lastre caricate di taglio, e fissate contro le sponde stesse con un cuneo di legno chiamato “zeppa”. Su questo tipo di carro i buoi aveva una bardatura particolare, con un sistema di sgancio del timone dal giogo, per permettere alla parte anteriore di alzarsi e facilitare ancora di più le operazioni di carico, i buoi avevano due pinze fissate nelle narici, e collegate alle redini per determinarne la direzione.

Anche se a prima vista il mestiere del bovaro potrebbe sembrare molto semplice, in realtà non lo era per niente, perché necessitava di una grande esperienza per trattare con una certa sicurezza con animali, che, anche se considerati docili, avevano nelle corna un’arma letale. Le razze maggiormente utilizzate erano tre, la Maremmana, riconoscibile per le corna smisurate a mezzaluna, il Garfagnino, con il caratteristico mantello grigio scuro, ed infine il Pontremolese, di un colore biondo dorato. Non è dato sapere se questi buoi fossero allevati in loco, o se, com’è molto più probabile, ciò avvenisse nella Valle del Verde pontremolese, e in Garfagnana, terre molto più ricche di pascoli. L’unica cosa che sappiamo con certezza è che queste tre razze non era state scelte a caso, ma specificatamente per la loro straordinaria capacità di adattamento sia alle condizioni meteorologiche estreme, sia per la loro rusticità nel nutrirsi senza problemi, anche con foraggi di scarsissima qualità, tra cui il durissimo e indigesto “paler” com’è chiamata quell’erba dura e fibrosa, presente in grande quantità, sulle nostre colline. All’età di tre anni il torello subiva la castrazione, operazione necessaria sia per renderlo più docile, ma soprattutto per impedirgli gli inevitabili duelli tre maschi nel periodo degli amori. Quindi seguiva la doma per un periodo di circa un mese, un tempo eseguita con metodi non proprio dolci, ma con l’uso generoso del pungolo, e che comprendeva perfino, se l’animale per esempio non voleva alzarsi, l’accensione di un fuoco sotto il muso.

In una Società, dove anche gli uomini erano al limite della sopravivenza, gli animali erano considerati delle semplici “cose” da usare senza parsimonia per ottenere il massimo in cambio del minimo, quindi non si andava troppo per il sottile per ottenere questo scopo. Io ho conosciuto, molti anni fa, un ex cavatore, ora purtroppo passato a miglior vita, che mi raccontava che quando era ragazzino, andava spesso con il padre, bovaro a giornata da Silvà, un piccolo proprietario che aveva diverse paia di buoi alla Piastra. Ebbene, si ricordava perfettamente che suo padre gli diceva di fare attenzione ai buoi con le corna tinte di rosso, perché “’ngnoranti e traditori,”(cattivi e traditori) non a caso queste povere bestie avevano costantemente i loro quarti posteriori completamente ricoperti da una crosta di sangue rappreso, risultato dell’attenzione particolare che i bovari gli dedicavano, e che mosche e tafani eleggevano a loro luogo preferito. Diceva anche che questo Silvà, teneva i buoi dentro un semplice recinto, senza alcun tipo di copertura, sia d’estate sia d’inverno, che vi fosse il sole, o che il terreno fosse ricoperto dal ghiaccio, e che anche il foraggio era distribuito con estrema parsimonia. Quando le coppie di buoi erano più di tre, necessitavano di una specie di “motorino di avviamento”, così in testa alla fila era messo un mulo, o un asino, con il compito specifico di “tirare” il gruppo. Ogni due coppie necessitavano un bovaro, che stava di solito seduto sul giogo, che oltre ad incitare con il pungolo gli animali, aveva il compito di farli andare nella direzione voluta, essendo totalmente privi di redini.

Si è calcolato che fu attorno alla metà del 1800, che a Carrara si ebbe la maggiore quantità di buoi, stimata attorno alle mille unità, ma con la messa in funzione della Marmifera questo numero calò drasticamente. La concorrenza con la nuova venuta, era tanto esasperata che, attorno agli anni trenta, alcuni bovari organizzarono un attentato dinamitardo per distruggere i Ponti di Vara. Questo fallì, ma lesionò tre dei quattro pilastri, e ancora oggi sono ben visibili le arcate di rinforzo costruite per sorreggere i piloni danneggiati. Il trasporto con i buoi sopravisse a stento fino all’inizio del secondo conflitto mondiale, per poi sparire completamente. Fa impressione questo dato riportato in una rivista che si occupa del salvataggio delle specie a rischio, dove si dice che per quello che riguarda solo la razza Pontremolese, in Emilia nel 1940 erano censiti 100.000 capi, scesi a 5700 negli anni sessanta, e ad appena tredici nel 1983.
Il progresso ha le sue leggi, era chiaro che questo millenario sistema di trasporto era destinato a finire, ma siccome la storia è un patrimonio collettivo, sarebbe auspicabile che rimanesse almeno il ricordo, perché per ogni anche minimo frammento di storia che va perduto, ognuno di noi diventa culturalmente più povero.


Enzo De Fazio

Carrara: Ai tempi dei buoiultima modifica: 2010-09-02T10:34:00+02:00da minobezzi1
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