Capannori (LU): Gli scheletrini del Frizzone

Federica di Spilimbergo per loschermo

Studiosi e archeologi lanciano un grido di allarme: ‘salvare i morticini del Frizzone’. Il tempo che passa, infatti, non può senza dubbio aiutare i resti dei piccoli cadaverini di epoca romana, trovati nei pressi del Casello del Frizzone e, allora, si cerca di portare nuovamente l’attenzione su quei preziosi ritrovamenti di alcuni anni va.

Era a cavallo tra il 2006 e il 2007 che, nell’area dove sarebbe successivamente sorto il casello autostradale del Frizzone, venne alla luce una vasta area archeologica di indiscussa importanza. Risalente all’epoca Tardo-repubblicana, vi spiccano un edificio ligneo, che rappresenta un unicum; resti di viti e di un calcatorium per la produzione del vino; una serie di fossati rituali (bóthroi) colmi di frammenti di anfore e di vasellame; un complesso di sepolture cultuali di neonati; uno scheletro di animale adulto (Canis familiaris L.1758), sostanzialmente integro, sepolto in una fossa a pianta ellittica forse con scopi magico-propiziatori; una splendida terracotta architettonica raffigurante Dioniso su delfino; numerosi frammenti pertinenti al tronco e ai rami di varie specie arboree fra cui Quercus robur L.. Al momento dello scavo i reperti suddetti e altri ancora più fragili (semi, foglie, insetti) si presentavano in ottime condizioni di conservazione grazie anche all’effetto protettivo del limo argilloso, esito di varie alluvioni del fiume Serchio, l’antico Auser.

Dopo il ritrovamento, si è a lungo parlato della valorizzazione di questi reperti, ma soprattutto, a livello di studiosi, della salvaguardia di quanto trovato, ma, ad oggi, non è stato fatto niente per mettere in sicurezza quelle ossa che parlano del passato.

«Erano i primi giorni del novembre 2006 – ricorda l’archeologo Michelangelo Zecchini che guidò quello scavo – quando finimmo di scavare al Frizzone di Capannori quegli scheletrini tanto delicati che sembravano soccombere perfino ai morbidi tocchi di spazzolino. Ci accorgemmo subito del loro elevato valore scientifico: allineati lungo il lato occidentale di un edificio di pietra (sacello?), quei piccoli esseri lunghi appena 45-50 centimetri (neonati o non ancora nati?), accoccolati come se stessero ancora nel grembo materno, ci facevano entrare nell’intimo della sfera religiosa e cultuale di circa 2150 anni fa. Riti di fondazione? Orrendi sacrifici umani? Bambini immolati a una divinità crudele? O piuttosto creaturine che, decedute per cause naturali, furono offerte a un dio per una vita migliore nell’al di là? Comunque stessero le cose, i ‘neonati’ del Frizzone avrebbero potuto dare un contributo fondamentale alla conoscenza di un affascinante aspetto del nostro passato.  La speranza era che, stante la loro importanza, dopo lo scavo venissero affidati senza indugio alle cure dei paleoantropologi. Ma così non fu».

Intanto, il tempo è passato e sono trascorsi quattro anni da quanto gli scheletrini del Frizzone hanno trovato riparo nel deposito ‘Cavanis’ di Porcari. «Come docente di paleoantropologia da una vita – commenta Francesco Mallegni, ordinario di Antropologia all’Università di Pisa – sono rimasto sconcertato nell’apprendere ciò che sta succedendo ai “morticini” di epoca romana rinvenuti al Frizzone (Capannori) presso le fondazioni di un edificio forse dedicato a Diòniso. Mi sarei aspettato che, subito dopo lo scavo, fossero affidati a uno o più specialisti del settore. Invece, a quanto pare, sono stati abbandonati per anni in un deposito di materiali archeologici, in attesa di un restauro e conseguente studio, e rischiano di disfarsi e quindi di scomparire per sempre».

«Dalle dichiarazioni pubbliche di Giulio Ciampoltrini, della Soprintendenza ai Beni archeologici – dice Zecchini – si apprende con sorpresa e sgomento che ancora non ha fatto restaurare quelle esili ossa. La giustificazione è che mancano i soldi. Ma è fuor di dubbio che i soldi ci sono stati, e nemmeno pochi, giacché i reperti del Frizzone, per tramite del Comune di Capannori, hanno beneficiato di un sostanzioso finanziamento da parte di una Fondazione bancaria. Evidentemente, si è preferito utilizzarlo in toto per scopi (restauro di ‘cocci’, un convegno locale)».

Ma il vero rischio che corrono gli scheletri di neonati trovati a Capannori: deteriorarsi e non essere più utili agli studiosi (ma in fondo un po’ a tutti), per dare un’occhiata a un passato così lontano, reso vicino da un ritrovamento. «L’importanza del ritrovamento – spiega Mallegni – è enorme, dato che possono avere nel contesto e nel luogo in cui sono stati trovati, delle valenze straordinarie legate, forse, a sacrifici, credenze nella sfera del sacro,  oppure a malattie ed altro».

Perché gli scheletrini raccontino tutto questo, però, gli studiosi devono essere messi in condizione di operare su di essi. «Mai mi sono stancato – prosegue Mallegni – di sottolineare ai miei studenti, agli allievi e, soprattutto, agli archeologi che li trovano, come gli scheletri umani rappresentino un “archivio biologico” capace di rilevare non solo il sesso e l’età alla morte degli inumati ma anche la statura, i caratteri propri dell’ethnos a cui sono appartenuti e, attraverso il loro DNA residuale, le parentele, le malattie e perché no, il loro antico sembiante, usando le moderne tecniche di ricostruzione fisiognomica partendo dal loro cranio».
Dallo studio di questi reperti, inoltre, si potrebbero avere particolari sul tipo di alimentazione e, di conseguenza, sull’economia della società a cui appartenne la madre se essi sono neonati o anche feti a termine: tutti elementi utili agli studiosi per capire meglio il passato della nostra terra.

«Adottando una terminologia da pronto soccorso, non c’è dubbio che i ‘morticini’, essendo ad alto rischio di deperibilità – conclude Zecchini –, si classificano di per sé come reperti da codice rosso. Per quale motivo, pur possedendo gli strumenti necessari (soldi ed esperti più che disponibili), chi ne aveva il dovere non è intervenuto d’urgenza? Sarebbe opportuno, a questo punto, che i resti ossei infantili fossero esaminati da professori di paleoantropologia al fine di accertare le loro attuali condizioni. Con la flebile aspettativa che risultino esenti da deterioramenti irreversibili e, se così fosse, con la pia speranza che gli ulteriori 45mila euro (già finanziati) non vengano anch’essi totalmente adibiti ad abluzioni di cocci et similia».

E Mallegni, forte della sua esperienza, da parte sua, si candida a studiare questo ‘tesoro’ archeologico, mettendo a disposizione la strumentazione necessaria: «presso i laboratori che dirigo nell’Ateneo pisano o anche al Museo di Archeologia e dell’Uomo di Viareggio, di cui da qualche tempo sono stato nominato direttore. La mia équipe sarebbe pronta e la spesa modestissima, dato il numero limitato dei reperti».

Capannori (LU): Gli scheletrini del Frizzoneultima modifica: 2011-01-08T10:21:00+01:00da minobezzi1
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